Ho sempre pensato che mi avrebbero salvato le storie. Mi piaceva leggerle, ascoltarle, e perfino scriverle, riuscivano ogni volta ad amplificare e a sciogliere i miei sentimenti. Ma durante questi trent’anni di attività è successa una cosa: anche le aziende hanno capito che le storie avrebbero potuto salvarle.
In brevissimo tempo, storytelling è diventata una parola sulla bocca di tutti. Ne abbiamo imparato il significato e lo abbiamo trasfigurato in qualcosa di simile al vero ma non del tutto esatto: lo storytelling è diventato una strategia. Story-selling, potremmo dire.
Tutti hanno cominciato ad applicare le tecniche narrative archetipiche, primo tra tutti le grandi lezioni di Aristotele, di Jung e le riflessioni di Benjamin, per vendere ogni tipo di merce. Calzoncini sportivi, caffè, libri di ricette, 5x1000. Non c’era agenzia che non proponesse al proprio cliente una storia. Perché è vero: le storie funzionano.
Un articolo su Medium ad esempio, rivela che un fatto, un informazione o un semplice dato è 22 volte più memorabile se viene presentato all’interno di una buona storia. Le narrazioni infatti, sono in grado di attivare parti del cervello che gestiscono il ricordo e la connessione emotiva, ed è per questo che convincono più delle statistiche o delle promesse che i prodotti sono soliti fare in modo meramente informativo.
Così, negli uffici marketing, hanno studiato come si crea una storia. In poche parole: bisogna identificare i personaggi, il contesto, uno snodo e una fine. Lo snodo, per inciso, prevede sempre il coinvolgimento del prodotto. E il prodotto è la mano che scioglie il dubbio, il prodotto è la soluzione. Semplice, fin troppo.
Negli ultimi trent’anni le persone (ma adesso dovremmo dire: gli utenti) si sono abituate a essere bombardate da queste storie ben congegniate. Storie toccanti, divertenti, immersive, che offrono al brand che racconta l’opportunità di stabilire una forma di connessione migliore con il pubblico.
Tuttavia, se da una parte la ripetizione di certi schemi favorisce l’apprendimento, dall’altro l’abitudine ci ha condotto alla noia. Paradossalmente, non sappiamo più riconoscere le storie che ci interessano davvero. I video sui social e gli spot televisivi cavalcano l’onda dei trend e delle notizie, ma è evidente che, più che creare narrazioni profonde capaci di instaurarsi nella memoria, alla fine cadono nella trappola dell’informazione: istantanea, effimera, immediatamente sostituibile da un’altra successiva.
Con un pubblico così distratto e continuamente sollecitato, dove l’attenzione ormai è calata spaventosamente e drammaticamente a una manciata di secondi, mi pare che più che l’emozione, ormai si tenti di dare seguito a una parola che gli somiglia ma che vuol dire tutt’altro: la suggestione.
Quest’ultima infatti è contingente, è illusoria, sparisce dopo pochissimo tempo.
Così, una volta capito il trucco, in cerca di questa suggestione, le notizie diventano storie, i brand diventano storie, e addirittura le persone diventano storie (basti pensare al grande fenomeno del personal branding e alla necessità di “narrativizzare” la vita privata).
La costante iper-comunicazione che ci avvolge ci induce a rispondere istintivamente a qualsiasi informazione (che cerca di vendersi come storia) e usiamo like, emoticon e reaction per andare avanti, eppure non si attiva mai alcun processo di memorizzazione.
E senza memoria è difficile creare sia consapevolezza del brand, sia l’affezione ad esso. La domanda a questo punto sorge spontanea: esistono ancora storie che vale la pena di raccontare?
Certo, io sono sicuro che ce ne siano. Ma bisogna stare attenti, soprattutto noi, professionisti del comparto della comunicazione. Una storia poco pregnante, infatti, rischia di generare l’effetto opposto di quello che il cliente desidera: il disorientamento dell’utente finale e la disaffezione al brand.
Bisogna prendersi tempo, anche quando ci siamo disabituati a considerarlo un valore. Bisogna ascoltare e comprendere l’essenza di ciò che vogliamo raccontare, nonostante l’abbuffata costante e sconsiderata di contenuti. Stando a questa metafora, dobbiamo trovare la storia che ha un sapore diverso, autentico, memorabile, che induca a fermarsi.
Di fronte alla tavola imbandita di post, video e sponsorizzazioni che invadono gli schermi, bisogna trovare il modo di interrompere il dito che scorre. Occorre una storia scovata attraverso l’ascolto di bisogni profondi e reali, pensata per dare speranza e non per aumentare la paura. Una storia che resista alle contingenze e che abbia modo di crescere ed esistere nella mente di ciascuno. Questa sì che sarà una storia. E non la sua fine.
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